Se il vaccino COVID sia o no una misura di sicurezza necessaria è problema che si affronta partendo dall’articolo 2087 del Codice civile che prevede per il datore di lavoro di assicurare misure di sicurezza garantite dalla tecnica per proteggere i lavoratori. Se egli non vigilia e non assolve questo obbligo rischia, in caso di infortunio (in questo caso, di contagio da Covid 19) di risponderne civilmente e penalmente.
Si discute molto su quali misure adottare nel caso un dipendente rifiuti il vaccino COVID: esso risulta lo strumento più efficace per arginare la pandemia, con un’efficacia pari al 95%, come confermato dalle autorità prepste (Ema in Europa e Aifa in Italia, per esempio) che ne hanno autorizzato l’utilizzo.
Le altre misure di sicurezza non sono equivalenti. L’uso delle mascherine e delle altre misure (lavaggio delle mani, distanziamento fisico) sono misure contenitive ma, in presenza di un vaccino, non possono ragionevolmente considerarsi sufficienti.
La valutazione del rischio spetta al medico competente che deve valutare il potenziale di contagio.
Rifuto del vaccino COVID: cosa si rischia?
Se, essendo utilizzabile la misura del vaccino, si permette l’accesso in azienda a lavoratori non vaccinati, soprattutto in certi contesti, come le RSA, in caso di contagio si corre il rischio di violazione dell’articolo 2087 del codice civile.
Il documento di valutazione dei rischi riporterà un maggior rischio di contagio da parte dei non vaccinati. Se il lavoratore che rifiuta il vaccino COVID può svolgere altre attività lavorative (come lavorare da remoto) o essere adibito a compiti che riducano la possibilità di nuocere, il lavoratore non potrà essere licenziato né sospeso.
Tra diritti costituzionali e materia per giuslavoristi, la questione resta scottante.